sabato 9 febbraio 2013

Considerazioni su testi semioticamente interessanti


 


Susan Sontag – Sulla fotografia 1973, Davanti al dolore degli altri 2003

 
http://www.susansontag.com/SusanSontag/index.shtml
 

…si potrebbe pensare che i pii artisti del Medioevo avessero previsto il dagherrotipo quando collocarono talmente in alto le loro statue e i loro intagli che solo gli uccelli che giravano intorno alle guglie potevano estasiarsi della perfezione dei loro particolari.

(H. de Lacretelle)

I libri presi in esame per la mia riflessione sono integrazione l’uno dell’altro. Partiamo molto indietro negli anni. L’autrice scrive che l’umanità si attarda nella grotta di Platone continuando a dilettarsi di mere immagini della verità.

Tutte queste immagini creano un inventario che inizia nel 1839 con l’invenzione della fotografia. Questo introduce una quantità indescrivibile d’immagini rispetto alle semplici ombre della caverna. L’insaziabilità dell’occhio fotografico modifica le condizioni di quella grotta che è il nostro mondo introducendo un nuovo codice visivo in pratica, una nuova grammatica. Ciò ha portato a forme d’arte di massa. Ogni famiglia si costruisce una cronaca illustrata di se stessa anche grazie al turismo che accompagna lo sviluppo della fotografia. Come lo alimenta il giornalismo. L’aggressione è implicita in ogni uso della macchina fotografica. L’orrore di certi colpi memorabili del fotogiornalismo contemporaneo deriva in parte dalla plausibilità che ha assunto, nelle situazioni in cui il fotografo può scegliere tra una fotografia e una vita, la scelta della fotografia. Chi interviene non può registrare, chi registra non può intervenire, in pratica è come essere complici di ciò che rende un soggetto interessante e degno di essere fotografato, compresa la sofferenza o la sventura di un’altra persona. Tralascio un passaggio di fotografi eminenti come Diane Arbus, Walt Whitman, Walker Evans, Alfred Stieglitz, nel quale riassume il loro porsi di fronte all’oggetto o persona da fotografare, riporto solo la dignità ricercata nelle situazioni di dolore da parte della Arbus un po’ come il contemporaneo James Natchway, quindi accompagna lo sviluppo dei mestieri correlati alla fotografia anche un’etica professionale che favorisce la creazione di uno stile  proprio. Sono questi stili, la gran parte non supera il 1950, che saranno presi a modello dai posteri.

Dai dettagli riferiti dall’autrice, possiamo individuare due filoni fondamentali e distinti: La corrente americana e lo stile europeo. Entrambi di indiscusso spessore in quanto a qualità e messaggi. Jack Kerouac dimostra che il tono prevalente della fotografia americana è quello della tristezza, di una lugubre visione di morte. Espone questo pensiero nella sua introduzione al libro fotografico “The Americans” di Robert Frank dicendo che l’America è un crogiuolo di pazzie. Robert Frank nelle sue fotografie immediate, veloci, senza troppe riflessioni, ha fermato il sole che scotta sulle strade mentre viene musica dal juke-box o da un vicino funerale, viaggiando con il suo genio e la sua tristezza per quarantotto stati e riprendendo scene che non si erano mai viste sulla pellicola. Conlcude Kerouac…Dopo aver osservato queste immagini, non saprete più se un juke-box  è più triste di una bara.

Aggiunge Berenice Abbott, apprendista nei primi del ‘900 di Man Ray, “il fotografo è l’essere contemporaneo per eccellenza; attraverso i suoi occhi l’oggi diventa passato”. Dopo aver scoperto ciò inizia un’instancabile missione, quella di registrare in “Changing New York” la città prima che cambiasse completamente, come fece almeno 30 anni prima l’europea Atget nei confronti di Parigi. Vediamo nel suo lavoro l’incessante sostituzione del nuovo estremizzata dall’accelerazione e dall’avidità in cui anche il passato recente viene continuamente consumato, eliminato, abbattuto e gettato via. Sono sempre meno gli americani che possiedono oggetti con una patina di età, vecchi mobili, utensili dei nonni, quelle cose usate e scaldate da generazioni di mani umane che noi europei in genere consideriamo come essenziali a un paesaggio umano. Oltreoceano abbiamo piuttosto paesaggi transistorizzati che hanno contribuito alla crescita di una fotografia meno riflessiva e più nervosa.

Da lato europeo possiamo contare su un filone legato a Henri Cartier Bresson (HCB) che con Robert Capa fonda la Magnum una delle prime agenzie fotografiche che aveva un suo stile di ripresa, riflessivo, particolareggiato e dignitoso fin dal pensiero prima dello scatto, che ha portato alla scritta “do not crop this photograph” per rispettare e valorizzare al massimo le motivazioni e lo stile di quello scatto che qualora tagliato o ridotto assumerebbe altro significato.

Agli albori della fotografia, verso la fine del quarto decennio dell’Ottocento, William H.Fox Talbot notava la particolare attitudine della macchina a “registrare le offese del tempo”. Egli alludeva a ciò che accade agli edifici e ai monumenti. Per Susan Sontag e i suoi maestri le abrasioni più interessanti sono quelle della carne non della pietra. Attraverso le fotografie seguiamo nella maniera più intima la realtà di come la gente invecchia. La fotografia è l’inventario della mortalità, e rileva lo stretto legame che permea tutti i ritratti fotografici, quello tra fotografia e morte.

Il nome con il quale fu brevettata la fotografia era “calotipo” da Kalòs che significa appunto bello. Questo ci suggerisce un’importante riflessione: è abituale che coloro che hanno visto qualcosa di bello si dicano dispiaciuti di non aver potuto fotografarlo. E il successo della macchina fotografica nell’abbellire il mondo è stato tale che ora sono le fotografie, e non il mondo, il modello della bellezza. Mi riferisco a quante volte ho sentito “guarda che bel tramonto…sembra una cartolina”…evidentemente c’è qualcosa che è uscito dai binari.

Riassumo e commento il successivo passaggio con la frase “una realtà messa in copertina”…Qualunque siano le pretese morali avanzate in nome della fotografia, la sua conseguenza principale è quella di trasformare il mondo in un grande magazzino, o in un museo senza pareti, dove ogni soggetto è degradato ad articolo di consumo e promosso a oggetto di ammirazione estetica. Grazie alla macchina fotografica, diventiamo tutti clienti o turisti della realtà.

L’attuale momento di dubbio della fotografia può essere misurato dalla dichiarazione di Cartier-Bresson secondo la quale è forse troppo rapida. Il culto del futuro, di una visione che diventi sempre più rapida, si alterna al desiderio di tornare a un passato più artigianale e più puro, quando le immagini avevano ancora la qualità delle cose fatte a mano.

Altra contrapposizione legata alla presenza della fotografia la troviamo tra paesi industrializzati e non. In questi ultimi molti si sentono in apprensione quando vengono fotografati, intuendo che si tratta di una forma di violazione, di un atto di irriverenza, di un saccheggio sublimato della personalità o della cultura, nei paesi industrializzati l’individuo cerca sempre di farsi fotografare, sentendo di essere immagine e di poter diventare reale grazie alle fotografie.

Inizialmente ostacolata in zone di guerra, perché riferiva la verità, la fotografia è stata in seguito introdotta come durante la guerra del Golfo nel 1991, qui cui le forze armate americane incoraggiarono la diffusione di immagini che davano l’idea della guerra tecnologica: il cielo sopra chi moriva attraversato dalle tracce luminose dei missili e delle bombe – immagini che sottolineavano l’assoluta superiorità americana sul nemico.

Aumentando quindi il numero d’immagini di violenza, siano esse a favore o contro la guerra, mi viene di riflettere che la maggiore visione di immagini crude provoca una più rapida normalizzazione di esse portandoci a sostare davanti al dolore degli altri con indifferenza. Ciò mi ricorda il sociologo Popitz, dove nel suo “Fenomenologia del potere” parla dell’esaltazione della violenza, cioè l’indifferenza verso le sofferenze della vittima dovuto alla capacità umana di eliminazione dei limiti alla violenza. È qualcosa di diverso strangolare un uomo con le mani nude o colpirlo con la freccia, col passare della storia al posto dell’arco subentra qualche bottone o qualche leva ed ecco che il nesso tra la propria azione e le conseguenze diviene meno visibile, meno riconoscibile.

La drammatica conclusione della Sontag e anche il suo auto accusatorio punto di vista è che davanti al dolore degli altri, chi si sente al sicuro, rimarrà indifferente. Sembra aver letto o comunque essere molto in sintonia con il sociologo tedesco.

La compassione ci proclama innocenti, oltre che impotenti. E può quindi essere, a dispetto delle nostre migliori intenzioni, una reazione sconveniente se non del tutto inopportuna.

Sarebbe meglio mettere da parte la compassione che accordiamo alle vittime della guerra e di politiche criminali per riflettere su come i nostri privilegi si collocano sulla carta geografica delle loro sofferenze e possono essere connessi a tali sofferenze, dal momento che la ricchezza di alcuni può implicare l’indigenza di altri. Ma per un compito del genere le immagini dolorose e commoventi possono solo fornire una scintilla iniziale.

 

Collezionare fotografie è collezionare il mondo, lei afferma nel 1973. Oggi potrei riflettere con lei che il mondo è talmente più a portata di mano che siamo impigriti anche nel collezionarlo. La rete è il nostro serbatoio infinito di immagini quindi, perché collezionarle? Se fotografare era appropriarsi della cosa che si fotografa, oggi fare una fotografia è un gesto entrato nella naturalità del quotidiano che ha abbassato notevolmente la qualità del prodotto a favore di un bacino di materiale sempre maggiore. Fare una foto prima dell’avvento del digitale richiedeva pensare, conoscere, ipotizzare. Oggi è come una grande autostrada in cui tutti viaggiamo con il nostro strumento di fotografia sia esso professionale o amatoriale e comunque tutti siamo lì a fare i fotografi cellulare alla mano senza il benché minimo pensiero prima dello scatto, curiosi soltanto poi di vedere come è andata.  Conoscere il passato, come in tutti gli ambiti, ridonerebbe maggiore dignità a una disciplina riassunta oggi in poche migliaia di transistor.

Un altro passaggio che mi sento di aggiornare col senno di poi, riferito ai giorni nostri è sulla seguente frase: “Col tempo la gente può imparare a sfogare la propria aggressività sempre più con la macchina fotografica e sempre meno con la pistola, e il prezzo sarà un mondo ancora più ingorgato d’immagini”. Direi che l’aggressività oggi ha travalicato il confine-arma-da-fuoco ed è diventato un fenomeno trasversale che appartiene a molti ambiti quotidiani. Il mondo quindi è ingorgato  di immagini al pari di quanto sia ingorgato di violenza.

 
Scrittrice e saggista sicuramente poliedrica in cui ebonon c'è forma della rappresentazione - dalla pittura, al cinema, al teatro, alla letteratura, alla fotografia - che Susan Sontag non abbia appassionatamente frequentato, indagato, messo alla prova. Ma forse, di tutte le arti che hanno catturato l'attenzione dì Susan Sontag, la fotografia è rimasta nei decenni quella verso cui ha mantenuto una affezione più costante, probabilmente per la sua leggibilità universale, per l'intrinseca democraticità del suo valore testimoniale, che valica le frontiere stabilite dalle lingue e dai back-ground culturali. Quando circa trent'anni fa apparve il saggio di Susan Sontag “sulla fotografia” la sua eco fu tale che si riprodusse in una miriade di citazioni, imitazioni che ancora troviamo in rete a quantità industriale. È stato un capostipite di un filone perché nulla fino all’ora era stato scritto sull’argomento o aveva trattato l’argomento “fotografia” come un linguaggio che nel trasformare se stesso trasforma anche i nostri usi,costumi e mentalità in maniera silenziosa.
Davanti al dolore degli altri - riprende la riflessione sulla fotografia per estenderla alle immagini di guerra: è piuttosto la storica alleanza tra due messe a fuoco, quella dell'obiettivo e quella delle armi, a costituire il vero soggetto di questo saggio che ha contribuito alla messa in discussione da parte della stessa Sontag di alcune esposizioni o mentalità passate che dopo tali e densi decenni ovviamente hanno confermato o modificato il cammino di maturazione dell’autrice.


 
 Roberto Balestra

 

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